Circolo Culturale Mario Arena

Da una foto
ombre e particolari


di Massimo Barattini
maggio 2009

Un vecchio futuro
di Daniela Monticelli

Patty, era la più grande di cinque fratelli, la sua età le aveva sempre procurato dei problemi e, a volte, dei fastidi. Abitava con la sua famiglia in una vecchia casa alla periferia di Londra, grande forse troppo per tenerla sempre in ordine. Le stanze, molto grandi, erano distribuite su tre piani, ma lei trascorreva maggior parte della giornata, al ritorno da scuola, su in soffitta, alla ricerca di oggetti ormai impolverati che i nonni o forse anche i bisnonni avevano lasciato. Questo amore per le cose vecchie lo aveva ereditato dalla mamma che aveva sempre cercato di riutilizzare gli abiti di tutti.
A prima vista esternamente la casa non era poi così brutta, il rosso dei suoi mattoni spiccava in mezzo al verde della campagna e questo in fondo le piaceva. Immaginava che un giorno, se quella casa fosse rimasta alla sua famiglia, l’avrebbe abbellita con colori vivaci, finestre variopinte ed un’immensità di fiori dal delicato profumo.
Un po’ bizzarra come si sentiva lei, abituata purtroppo ad una vita, bella sì, all’aria aperta, ma a volte un po’ triste e di uno stesso colore. E proprio quando si rifugiava nella soffitta ritrovava se stessa, il mondo di una volta che avrebbe riportato alla luce con la forza che era in lei, ma sicuramente pieno di colori e suoni. Cercava qualcosa che le avrebbe stuzzicato la mente e provocato, magari, particolari emozioni.
Anche da cose vecchie può nascere una stravagante idea, un punto di partenza per una vita nuova, al di fuori di vecchi schemi e abitudini.
Curiosando giorno dopo giorno aveva trovato una vecchia macchina fotografica ancora funzionante: “immortalare” quella vecchia casa, con i suoi vecchi mattoni rossi e quella vecchia staccionata che il sole aveva proiettato su quel vecchio muro. Era l’anno 2009.

 

Pteridophyta
di Ivana Trevisani Bach

Dyte si collegò alla postazione lunare dove i suoi colleghi stavano lavorando all’arricchimento del Tantalio. I dati erano buoni; li immagazzinò nella Memoria Universale e li trasmise al Centro Planetario di zona. Era quasi ora di tornare a casa. Guardò dalla grande vetrata dell’edificio sferico dove lavorava; il sole stava tramontando in fondo alla grande spianata verde iridescente di clorobetonfillo fotovoltaico.
Il display segnalava che l’energia accumulata dalla superficie della spianata era stata, in quel giorno, più che sufficiente alle necessità del laboratorio.
- Bene - pensò Dyte – basterà anche per questa notte -
Guardò ancora una volta fuori. Cominciava ad affezionarsi a quel paesaggio. Certo, non era come quello dall’altra parte del globo dove aveva vissuto nell’infanzia. Là, il clorobetonfillo ricopriva una superficie ondulata e varia Ricordava ed amava quelle ondulazioni con affetto, come un volto familiare.
Uscì dalla stanza e il suo sguardo si posò sull’immagine virtuale proiettata sulla parete dello studio della sua collega Làmbdoka. Lei collezionava immagini antiche; le raccoglieva dagli archivi storici di foto terrestri che scovava nell’Archeopedia del laboratorio. L’immagine era interessante, non l’aveva notata prima. Sotto c’era scritto :
Penisola XvRY,
Coordinate: X: z231; Y: k324-
Colline toscane, anno 1995.
Osservò con più attenzione. Con sorpresa scoprì che quelle erano le coordinate della zona dove aveva vissuto nell’infanzia! Riguardò quell’immagine con un’improvvisa emozione. Era un paesaggio antico, a giudicare dalla data di centinaia di migliaia di anni prima, risaliva a quando non c’era ancora il clorobetonfillo voltaico a ricoprire la terra.
L’immagine regalava serenità e appagava di bellezza. C’era un’onda di colline verdi con prati, una piccola casa su un cucuzzolo e alcuni alberi alti e stretti vicino alla casa e pochi altri alberi sparsi. Com’era il nome di quegli alberi? Pure la Làmbdoka glielo aveva detto… “capressi?”, “keprassi?”… Boh…Come ricordare… Nell’era precedente, quando la terra aveva ancora le piante, le specie vegetali erano talmente tante e con nomi tanto difficili… impossibile ricordare. Cose da specialisti, come la Làmbdoka. Nomi noti solo a quei matti che avevano la passione di consultare l’Archeopedia generale.
Certo… quell’immagine con prati e alberi aveva fascino. La primordiale clorofilla di quelle antiche piante produceva energia milioni di volte minore del successivo clorobetonfillo fotovoltaico, però… però, era bello quel paesaggio… Accidenti se era bello!
Allora gli venne la voglia di vedere altre immagini. Entrò nello studio della Làmbdoka e schiacciò il tasto del proiettore virtuale. Sulla parete di fronte comparve l’immagine di una foglia: una lamina verde pennata e seghettata con ricami regolari e la sua ombra nera proiettata su una pietra..
Sotto c’era scritto:
Immagine di Pteridophyta
Foto di M. Barattini, anno 2007

 


Il cyborg
di Guido De Marchi

Non c’era in Ron Mallon un grande entusiasmo per le recenti innovazioni tecnologiche che avrebbero portato l’uomo a colonizzare il sistema solare, e neppure il grande sogno delle stelle evocato dalla sonda inviata su Alfa Centauri.
Ron era diventato un cyborg dopo il pauroso incidente nel quale era perita la sua famiglia. Unico sopravissuto. Cinque fottutissimi minuti di ritardo nei soccorsi e si sarebbe risparmiato ottanta anni di odissea. Grazie ai sofisticati progressi della biotecnologia, quel che era stato salvato del suo corpo, era stato integrato in un progetto biocibernetico che lo aveva reso quasi immortale. In pratica quel che rimaneva di Ron era stato associato ad un robot gestito da un calcolatore che provvedeva a rendergli possibile un lavoro, una vita di relazioni intellettuali e culturali, senza però i vantaggi fisici di una vita biologica.
A prima vista Ron era un uomo come gli altri, ma solo a prima vista.
Col passare del tempo Ron si era accorto dello sviluppo dei suoi processi logici: era più veloce nel prendere decisioni, riusciva a stabilire con esattezza, in frazioni brevissime di tempo, i margini di probabilità di una qualsiasi azione, la sua conoscenza stava diventando illimitata e se fosse stato un altro uomo avrebbe sicuramente goduto di un profondo senso di onnipotenza… Ma lui era Ron, aveva amato il suo mondo come lo amano i poeti, i sognatori, beandosi di albe e tramonti, godendo del sapore dell’aria pulita delle montagne, degli spruzzi del mare mentre, da ragazzo, sfidava il vento col windsurf; aveva goduto le gioie della famiglia e oggi era solo il cervello di una macchina estremamente sofisticata.
Non si può guardare un tramonto e trovarsi a calcolare le varie lunghezze d’onda della luce che attraversa gli strati densi dell’atmosfera, né ascoltare il vento e trovarsi a calcolarne la velocità, o sorprendersi a valutare i millimetri di pioggia che sta cadendo invece di farsi cullare dal ritmico rumore della pioggia:
Ron si accorgeva che in lui stava prendendo sempre più spazio la macchina, le sue innumerevoli banche dati che attingevano dalla rete erano in continua crescita.
Ogni tanto, dal profondo, emergeva in lui il ricordo di quando era ancora bambino, la casa di campagna, l’orto, i nonni, i profumi in tavola quando tutti si riunivano per mangiare...
Ricordava anche la piccola cantina dove aveva condotto i suoi primi esperimenti da scienziato, con la sua porticina in legno chiusa da una piccola serratura in ferro.
Fu nel ritrovare una vecchia foto della serratura della sua cantina, quasi una lapide alla memoria del tempo, che venne assalito da una grande nostalgia, l’aveva sul computer. Dopo aver disposto le cose per la sua assenza, decise di tornare ai luoghi della sua gioventù.
Come tutte le località rurali la casa era in totale abbandono, intorno la vegetazione stava prendendo il sopravvento e parte del tetto era crollata.
Fu con molta commozione che Ron cominciò a ispezionare la cadente costruzione. Capì che non avrebbe retto ancora a lungo, la sua esperienza di cyborg gli testimoniava una costruzione prossima al crollo, sarebbe bastato poco e la casa sarebbe venuta giù come un castello di carte.
Aveva anche individuato dove e come ciò si sarebbe verificato: c’era un pilone portante alla base del quale le acque piovane avevano creato un ruscelletto che stava lentamente minandone la stabilità.
Continuando il suo giro Ron ritrovò la cantina, con la sua porticina in legno che si stava sfaldando, Unica cosa di notevole era rimasta la vecchia serratura che, tutta coperta di ruggine spiccava come una macchia di sangue sul grigio sporco della porta.
Nel varcare la soglia Ron fu assalito da una nuova ondata di emozioni: era lì dentro che si era scambiato il primo bacio con la sua compagna, eralì che per la prima volta avevano fatto l’amore. Si guardò attorno, i suoi occhi da cyborg vedevano benissimo anche nella poca luce della cantina. C’erano ancora molte delle cose che aveva usato nei suoi esperimenti, velate di polvere e ragnatele, e anche molti ingredienti chimici chiusi in antichi barattoli ermetici.
Fu allora che gli venne l’idea.
Si mise a lavorare alacremente, creò una miscela esplosiva, e usando l’energia del proprio corpo cibernetico, fece scoccare la scintilla. Mentre la casa gli crollava addosso Ron si trovò a sorridere: finalmente era tornato a casa!

 

IL CROCO
di Silvana Alliri

La neve si era ghiacciata dopo le abbondanti nevicate. Nell'aria si sentiva vagamente il cambio di stagione; presto sarebbe arrivata la primavera.
Timidamente, ma risolutamente, erano comparsi i Crochi selvatici, vincendo la superficie della terra e quel palmo di solidificata neve. Erano fiori delicati di un incantevole color lilla quasi trasparente; altri più intensi, violacei, tendenti al blu. Gli stili gialli porgevano gli stimmi come piccole rosse labbra invitanti.
La fatina frullava le ali a poca distanza dalla fioritura e aveva un tantino freddo.
Doveva compiere la missione che la sua regina Arlina le aveva affidato: carpire i segreti del Croco. Questo umile fiore sembrava portare con sé un'occulta storia.
Quali erano, dunque, queste recondite fonti di bellezza? Da quale antica sorgente nasceva l'origine di quell'indefinibile richiamo, fonte d'interesse e di attrazione?...
I Crochi apparivano come tante note colorate d'ametista, in mezzo a quello spiazzo simile ad un tappeto iridescente sotto i raggi del sole!
Arlina regnava nel mondo fantasmagorico degli gnomi, dei folletti e delle fatine. Coloro che portavano l'aureola della bontà intorno al capo, come fosse l'unica verità al mondo.
Arlina, assegnando questo compito a Filly, lo aveva fatto con l'intento di far conoscere alla giovane fatina che cosa conteneva la vita oltre alla spensieratezza e alla purezza della giovinezza. Lei avrebbe compreso qualcosa che ancora ignorava. Era arrivato il momento.
Filly non ebbe timore a posarsi sopra uno dei sei petali di un Croco particolarmente suggestivo, senza il timore di sentirsi intrappolata dall'improvvisa chiusura dei petali. Sapeva che, fintanto che il sole fosse stato splendente, la corolla non si sarebbe chiusa: i sei petali sarebbero rimasti aperti come amache.
- Croco, vorresti raccontarmi la tua storia? - chiese cortesemente Filly.
- Nulla in contrario - rispose Croco - Se hai voglia di ascoltarmi. Vieni con me.
- Con te?! - domandò Filly - Dove?!
- Dentro il mio cuore. Giù. Giù. Sottoterra. Tu, lo puoi fare!
Filly rimase perplessa. Doveva proprio farlo? Allontanarsi dal cielo azzurro e dal sole che cominciava a sciogliere la neve?! Doveva proprio scendere nell'oscurità del sottosuolo per sapere quello che la sua regina Arlina le aveva chiesto di fare?!
- Perché indugi?! - disse Croco - Non aver paura! Ritornerai nell'aria. Vieni con me!
Filly scivolò lungo uno dei tre getti gialli, verso il basso, nel centro da dove si dipartivano i petali e proseguì ancora più giù, giù fino al bulbo dove maggiore era lo spazio.
- Ancora - disse soavemente Croco - vieni in seno all'Ovario!
E Filly entro nel tempio della genesi.
Era una forma tondeggiante, lattiginosa dalla quale Filly poteva vedere dipartirsi all' esterno, piccoli tentacoli che sprofondavano ancora più in basso tra terra e sassi. Queste sottili radici aspiravano l'essenziale sostentamento d'acqua e d'altri alimenti utili alla sopravvivenza.
- Ho la fortuna di avere un buon nutrimento - disse Croco - Questa terra è buona, non è contaminata dai veleni. La mia linfa è forte come quando era rossa sangue.
Filly, a queste parole, fu scossa da un brivido gelido.
Poi sentì un intenso calore invaderle il corpo. Era come se il Sole fosse entrato in tutto il suo essere senza tuttavia annientarla.
Improvvisamente i suoi sensi furono pervasi da una percezione strana, mista fra uno struggente languore e un ardente apogeo di piacere. Non aveva mai provato prima, simili sensazioni.
In quell'involucro ci stava davvero bene! Si sentiva protetta e splendente. Stava splendendo lei stessa, come una lucciola. Con questa luce interiore poteva sentire i suoni che stavano comunicando con qualcosa di lei fino a quel momento ignoto.
- É il tuo cuore! - suggerì Croco - O, la tua anima, se preferisci!
- La mia anima?! - chiese Filly - Io sento il cuore gonfio di quella cosa che gli uomini chiamano Amore. Provo gioia, letizia ed esulto! Ma, provo anche tristezza e malinconia…Non comprendo!....
- Chiudi gli occhi! - disse Croco
Filly chiuse gli occhi e precipitò in un terribile incubo: vedeva intorno a lei insetti giganteschi che volevano mangiarsela. Cercava di fuggire senza poterlo fare. Lunghi steli come serpenti la avvinghiavano lacerandole il corpo con appuntite spine. Una voce le diceva che stava morendo. Moriva per sempre…
Non avrebbe mai più rivisto chi aveva conosciuto e giocato con lei!
Non avrebbe più sentito il profumo dei fiori, né il vento in tutte le sue molteplici personalità, né percepito la pioggerellina solleticarle il viso o le mille effusione della terra!
Non avrebbe mai più assaporato gli stupendi tramonti! Le aurore sul mare! Le notti stellate o il chiarore della Luna sui ghiacciai!…
Quante cose non avrebbe mai più visto! Sentito. Toccato. Annusato. Gustato!...
Insieme allo stupore e all'entusiasmo che la facevano sentire spensieratamente viva!...
- Filly! Filly! Svegliati! Tu sei entrata nel mio Sogno! - disse Croco.
Filly aprì gli occhi e comprese di aver vissuto un momento terrificante e reale, così intenso da procurarle dolore. Dello stesso male, il celestiale Croco ne era stato la vittima.
Era un dolore tanto potente da doversi espandere e trovare uno sfogo.
Assomigliava ad un torrente in piena, gonfio e limaccioso che trascinava nel suo avanzare tutto quanto trovava sul suo sentiero. Un fiume impetuoso, che feriva il suolo e deformava le sponde alla ricerca di un nuovo letto ove potersi adagiare vittorioso.
Filly sentì scorrerle dagli occhi lacrime. Non sapeva cosa fossero le lacrime. Non conosceva il dolore, né la tristezza.
Pianse a lungo. Gocce di pianto inondarono il bulbo. Lo inzupparono. Non credeva di possedere quell'incredibile quantità di lacrime! L'umore scorreva dentro le radici e si spargeva intorno amalgamando la terra…
- Filly - disse Croco - Vieni dentro il mio cuore!
Filly si lasciò andare ed entrò nel cuore di Croco.
Quante cose aveva imparato!
Arlina sarebbe stata soddisfatta e compiaciuta per l'andamento della missione.
Filly era diventata adulta. Ora sarebbe stata in grado di comprendere i sentimenti umani e di poter consolare.
Croco la voleva per sé. E, lei, si era perdutamente innamorata! Avrebbe tradito Arlina?!
Senza ombra di dubbio: avrebbe tradito la sua regina! Aveva scoperto che cos'era l'anima! Aveva scoperto che l'Amore vinceva la vita!
Filly non ebbe più paura e prese coscienza che mai avrebbe più sentito sofferenza. Non sarebbe mai più stata turbata dalle angosce o dalla tristezza. Non aveva più desideri. Era finalmente felice.
- Per sempre! Entrerò nel tuo cuore per sempre! - disse Filly.
- Per sempre insieme! - rispose Croco.
Avvolti in una veste bianca e dura, Filly e Croco, ascesero.
Bucarono con forza la zolla, si allungarono e aprirono al sole teneri petali color ametista!
Gli stami rosso-aranciato tintinnarono alla brezza.

 

Considerazioni sopra una foto
di Adriana Antonielli

Queste piovose giornate di marzo sono ideali per esprimere le emozioni sulla foto di Barattini.
Sei in attesa del cambiamento, a dire il vero non vedi l’ora, sei impaziente, attendi, sapendo che qualche cosa deve succedere, qualcosa che quasi sicuramente ti migliora l’umore e lo spirito.
Il grigiore assoluto in cui viviamo nella stagione invernale ti entra nelle viscere e ti annebbia la mente. Noi topi di una grande città inquinata e nebbiosa, dimentichiamo per un lungo periodo l’emozione di vedere un cielo azzurro intenso o un tramonto rosso-arancio, anzi non riusciamo più a provare emozioni di fronte ai colori.
Siamo assuefatti al monocolore invernale dove le giornate di pioggia sono di una staticità surreale senza nuvole gonfie di acqua e lievi luci che filtrano attraverso, no, è tutto piatto senza sfumature.
Ciò mi rammenta alcuni film ambientati nel futuro dove piove sempre ed è sempre buio, forse ci stiamo avvicinando a questa realtà angosciante. A detta di molti, la città con questo suo tipico clima ha un fascino……… Un corno!!!!, non siamo neppure più in grado di capire quanto tutto ciò sia deprimente perché in realtà noi siamo eternamente depressi e siamo convinti che questo è il modo di vivere.
Recentemente, durante una gita in montagna in una giornata stupenda e tersa ero con una bimba di 4 anni che improvvisamente si mette a piangere disperatamente lamentandosi del troppo sole che a suo dire era fastidiosisssssimo. Sono rimasta colpita ed affranta da questa reazione così esagerata ed ho realizzato che i bambini delle nostre grandi ed inquinate città non sanno cosa significhi vivere in una natura incontaminata, sono fotosensibili e spesso il sole crea loro grossi problemi.
Non siamo più in grado di cogliere l’intensità dei colori autunnali, di foglie giallo oro in contrasto con l’azzurro del cielo e nuvole candide.
Non siamo neppure granché facilitati nella bella stagione, quando il cielo è di un tenue azzurro violaceo ed il nostro sole pallido si sforza con poco successo di penetrare la coltre di smog che, come stretti in un guscio, ci opprime e devasta (per darci un tono lo definiamo microclima!!).
Il tentativo di soddisfarci a volte nella cromaticità dei fiori, pure in questo caso spesso fallisce perché, nonostante la stoica resistenza ed adattamento della natura, le piante si ammalano.
Quindi, tornando alla fotografia in questione, se non si è capito, sono stata colpita dai colori intensi che ti riempiono gli occhi e l’anima. Forse sono fra quelle persone fortunate che provano ancora emozione di fronte a ciò. E’ per questo che nella mia frenetica ricerca ho trovato un modo per colmare questa carenza, elaborando le mie fotografie di animali, natura ed altro, ottenendo soggetti surreali e pieni di colore, colore, colore.

 

Una foglia
di Flavia Battistuzzi

Rivolgo lo sguardo verso il sole abbagliante e ne sento il calore in ogni fibra del mio essere. Mi riscalda, mi coccola con il suo tepore e crea una culla di benessere intorno a me. Improvvisamente il clamore sottostante attira la mia attenzione e osservo incuriosita la vita che si svolge sotto di me. Suoni di clacson, un vociare indistinto e un brulichio di gente che corre affannata, ricoperta di vesti sgargianti. Ognuno s’affretta, chiuso nel suo mondo personale, imprigionato in una gabbia di pensieri e preoccupazioni che li isola dagli altri. Quanti affanni, dolori e indifferenza. Quanta insoddisfazione traspare da quelle maschere che sono i loro volti. Così, mentre mi dondolo in preda ai miei pensieri, giunge una lieve brezza, un vento sottile e io ne ho paura perché mi staccherà dai miei affetti e spezzerà in un attimo quel lieve filo che mi tiene ancorata al mio mondo. Lentamente scendo volteggiando e non so dove mi fermerò, inesorabilmente l’ignoto mi viene incontro. Sono solo una foglia, ben poca cosa è la mia vita e lascerò solamente una flebile traccia della mia esistenza, destinata a sparire nel tempo. Sono solo una foglia; ma non vi sembra che il mio destino sia simile al vostro?

 

Paesaggi
di Sandra Zanone

“E non fare tardi per cena!”
La raccomandazione di Eleonora si spense sul rumore dell’uscio che si richiudeva e che troncò il saluto di Pietro, il suo figlio maggiore. Versò nella tazza la tisana fumante e si avvicinò lentamente alla finestra. Le piaceva quell’ora del pomeriggio quando la cucina era inondata dalla tranquilla luce del sole calante e mancavano ancora un paio d’ore alla cena. Solitamente si ritrovava sola in casa e allora si concedeva qualche minuto per sé sedendosi accanto alla finestra a sorseggiare la sua bevanda e lasciando vagare lo sguardo sulla campagna intorno.
Quello della collina era il suo mondo. Un paesaggio lieve che si abbelliva con i colori delle stagioni e che regalava emozioni sottili ma profonde, in sintonia con il suo animo. Lì tutto arrivava smorzato, attutito dalle fronde degli alberi, dal velluto delle colline, dalle lente spirali di strade punteggiate da casolari, vitigni e orti. Non vi erano eccessi: non la frenesia della città, non la solitudine aspra e assoluta della montagna, né la vastità sfacciata del mare. La vita di collina era fatta di riflessi, di sfumature, di echi lontani; una vita forse un po’ monotona ma solida come la terra, fatta di respiri lenti e di incredibili dolcezze, giusta per chi non si sente protagonista, né eroe, per chi ama nascondersi e confondersi.
Ogni tanto lo sguardo di Eleonora si spingeva sui monti lontani e sfumati nella luminosità dell’orizzonte. Quante volte il pensiero era volato laggiù e oltre per poi tornare come una rondine al vecchio nido, ogni volta con un piacere intriso di malinconia. Certe sere, quando il buio era sceso anche sul suo cuore, le sembrava di aver vissuto solo a metà, come se la sua vita fosse stata spesso in bilico tra i desideri più profondi e quelli che sentiva nelle persone a cui voleva bene. Era sempre stato così, con la famiglia di origine e poi, soprattutto, da quando ne aveva costruito una sua: un marito che aveva sempre amato di un amore tranquillo come il paesaggio che la circondava e due figli che amava di un amore roccioso ed inattaccabile come quelle montagne laggiù e che le avevano colmato la vita. Eppure le capitava, talvolta, di sentirsi incompleta, come se un angolo di sé fosse sfuggito a tutto quell’amore per ospitare una solitudine affollata di occasioni mancate, di incontri perduti e ignoti percorsi. Si sentiva in pace con se stessa per aver svolto al meglio, anche se con inevitabili inciampi, i ruoli che si era scelta, ma stanchezza e insoddisfazione erano occasionali visitatrici indesiderate. Accadeva soprattutto negli ultimi tempi in cui l’età cominciava a far sentire qualche passo appesantito e con i figli ormai grandi e proiettati verso un futuro sempre più autonomo, verso il quale la sua mano avrebbe dovuto sospingerli e non trattenerli. In certi momenti il passato, a guardarlo attraverso i flash dei ricordi, sembrava un album sfogliato troppo in fretta e lei quasi non si era accorta del passare del tempo, come se gli anni avessero camminato in punta di piedi per non farsi troppo sentire. In quei momenti le sembrava che, in quel battito di ciglia che è la vita, il suo sguardo si fosse fissato in una sola direzione e allora scacciava l’angoscia facendo qualcosa, doveva muoversi, pensare al bello della sua vita, al sorriso dei figli, alla rassicurante presenza del marito, ad una casa che le piaceva e alle tante cose che avrebbe ancora potuto fare.
E l’angoscia, sospinta dolcemente da quei pensieri, se ne andava quasi subito indugiando solo un poco, come a promettere un ritorno indefinito che però non spaventava Eleonora. La tazza ormai vuota si era raffredda tra le mani. Come sempre a quell’ora del pomeriggio, un’ombra ancora chiara cominciava ad inondare la cucina mentre il sole, sempre più basso all’orizzonte, avvolgeva la sua figura con l’oro rosso dell’ultima luce come un faro puntato su di un attore in scena. E allora lei si alzò per riprendere il filo della sua vita. Ricordò la biancheria stesa fuori e pensò che ormai doveva essere asciutta. Voleva ritirarla ancora tiepida di sole prima di mettersi a preparare la cena.

 

Momenti
di Paola Carroli

Questa sera aspetto Angelo a cena. È da alcuni mesi che non torna a casa. Adesso abita a Milano. Capirete la mia trepidazione. Per l’occasione ho addobbato le pareti della cucina con dei fiori secchi, proprio quelli che abbiamo raccolto insieme il giorno dell’addio nei campi dell’entroterra. Ho messo sulle mensole i piatti decorati in découpage che ci aveva regalato mia suocera il giorno delle nostre nozze. Sul fuoco bolle la minestra alla genovese con il pesto che so che lo mette di buon umore. Emana un odore fresco e intenso di basilico. Mi viene in mente la mia infanzia.
La tavola è già apparecchiata: ho scelto la tovaglia a quadri e il servizio di piatti dei giorni di festa.
La minestra è quasi pronta, ormai: ho versato i fagioli e le verdure precedentemente tagliate a pezzettini nell’acqua salata, ho messo del pomodoro sbucciato e senza semi, qualche melanzana e dei funghi. Non mi resta che aggiungere ancora un filo di olio extravergine della riviera, poi il pesto ed è fatta… Intanto nel forno sta cuocendo il soufflé di zucca con del formaggio, un piatto semplice e classico. Più tardi cucinerò il dolce della casa con la ricetta segreta tramandatami dalla nonna.
Vorrei che Angelo fosse già qui, anche se questa terra battuta dal sole e dal vento non è stata prodiga con lui, ha calpestato i suoi sogni, l’ha obbligato ad andarsene altrove.
Vorrei che questa cena lo ripagasse di tutte le fatiche che ha passato fin ora. Mentre verso il vino color rosso rubino nel calice del nostro servizio più bello ricordo le sue fattezze da contadino, così nitide che sembrano incise nel legno più duro, così nitide nelle mie pupille nere ormai spente.
Sento il profumo del minestrone avvolgere la tavola imbandita e le sue braccia che mi tengono stretta stretta come una volta… ancora una volta…

Le scaglie del drago
di Mabi Col

Mi svegliai tutta trafelata, stanchissima, come se avessi corso tutta la notte. Nella mente un vago ricordo di rosso, ma non uniforme: un rosso tutto ritagliato a quadretti come la pelle piena di scaglie di un pesce, di un rettile, anzi no, di un drago. Ecco, sì, proprio di un drago. Avevo la febbre? No, non l’avevo. E allora che cos’era tutta quell’ansia che attanagliava? Le scaglie del drago mi perseguitavano. Non riuscii più a riaddormentarmi. Mi alzai disperata ma un po’ intontita e mi preparai la solita colazione, dimenticando alla fine il drago e le sue scaglie e non ci pensai più fino a mezzogiorno.
Io ho una vita sgangherata. Vado a letto tardi, perché tanto prima di mezzanotte non mi riesce mai di addormentarmi e poi la mattina finisce che mi alzo presto anche se non ho niente che m’insegua. Sono pensionata, felicemente orfana e pure zitella. Per far passare il tempo che mi resta, finisco per inventarmi degli impegni, qualche volta anche inutili e dannosi sia per me che per gli altri.
A mezzogiorno butto qualcosa nel pentolino, quello che mi capita nelle mani fra le porzioni precedentemente preparate e congelate nel freezer. Già, io detesto cucinare e fare la spesa così, quando vado al supermercato, cucino furibondamente tutto il cucinabile, divido in vaschette di plastica e butto a surgelare. Dunque, a mezzogiorno, mentre riscaldavo la pietanza, mi tornò alla mente come un lampo il ricordo delle scaglie rosse del drago, che forse non erano scaglie. L’immagine era quella di una strana quadrettatura rossa e nera… forse. Questa però era svanita com’era venuta, pur facendomi andare di traverso il pranzo.
Mi ero resa conto che nel frigo era rimasto ben poco di adatto alla sopravvivenza e che avrei dovuto rassegnarmi ad andare a far la spesa. La cosa mi metteva sempre di cattivo umore. Quello e la storia delle scaglie di drago mi rendevano furibonda. Il mio odio per i centri commerciali e i supermercati si risolve sempre in un tiramolla di distrazioni vere o finte per non espletare la bisogna. Provai persino ad andare a riposare, io che nel pomeriggio non dormo nemmeno se mi danno una martellata in mezzo agli occhi! Finii così per tramballare per casa e la cosa si risolse con un ragguardevole sforzo di volontà solo verso le cinque, quando mi decisi a prendere lo zainetto, le chiavi della macchina, le borse della spesa (sono ecologista, non uso sacchetti di plastica), infilando le scale per uscire di casa. Sui primi gradini ebbi un attacco, forse il più forte, di scaglie di drago. Fui quasi per desistere e tornare a casa, ma più che l’onor poté il digiuno e mi risolsi a prendere la strada del supermercato. Parcheggiai e mi diressi verso l’ingresso al di là della strada. All’ultimo momento riconobbi le scaglie del drago sopra la portiera di quell’auto rossa guidata dal solito sciagurato ubriacone mezzo drogato che m’investì alle 17,12 (almeno così diceva il verbale dei vigili urbani) di un pomeriggio qualunque di giugno, mentre attraversavo la strada sulle strisce. L’ombra di una cancellata disegnava strani quadrati irregolari sopra il rosso di quel drago metropolitano. Non lo dimenticherò mai più. Anche se sarà difficile riuscire a raccontarlo a qualcuno. Ci vorrebbe un medium, ma di quelli bravi. Certamente più bravo di me, che non ho saputo riconoscere gli avvertimenti dei miei spiriti guida. Però sono contenta: di qua si sta meglio.

 

2 gocce
di Anna Mazzei

La tempesta era nell’aria da giorni. I nembi s’erano accumulati via via sempre più cupi ma, come sospesa, la pioggia esitava.
Due gocce di quel pianto celeste, nel frattempo, s’erano prese di passione, si guardavano tenere e sentivano ,per la prima volta, di essere prigioniere di quelle nubi grigie e tristi.
-Come ti chiami?- “Severina” rispose la goccia più minuta - e tu?-“ Riccardo”.
S’erano incontrate per caso ma, non erano dello stesso paese, né avevano avuto avi illustri, almeno Severina perchè Riccardo, in realtà...
-Dove andremo a finire quando si scatenerà la tempesta?- chiese la goccia più grande e più blasonata. –Spariremo nel mare o in qualche fiume o in qualche lago o in qualche pozzanghera o in qualche...insomma diventeremo un altro sentire, un’altra cosa. –E se ci legassimo a doppia mandata per cadere insieme?- -Certo, mi sembra un’idea buona, si può provare, perchè no?- Così, mentre aspettavano lo scatenarsi degli elementi, si annodarono usando un filo colorato recuperato, per un colpo di fortuna, da un arcobaleno.
Allorché la pioggia iniziò a cadere in uno strepitio di tuoni e in un bagliore di lampi, le due gocce innamorate, chiusero gli occhi sentendosi cadere sempre più in basso, sempre più in fondo. Quando finalmente, vinta la paura, li riaprirono, si trovarono abbarbicate fra due rocce che custodivano un lontano segreto. Esse racchiudevano, proteggendolo, il mistero della vita. L’acqua che scorreva con sembianze d’un indomito , fiero cavallo, era eterna e diversa o forse eterna ed uguale, non si capiva bene, sembrava la stessa ma, forse, non era la stessa. Severina e Riccardo, avvolti nel loro filo colorato, finirono in quell’incantesimo e vi rimasero.
Riuscite a vederli catturati in questa foto? Guardate bene, perchè sono ancora lì.

 

Il cancello
Dominica Piccardo

Anni prima con rumore di ferraglia si era chiuso alle sue spalle facendolo piombare in un abisso di terrore, sconforto e paura. Quelle chiavi, ostentate in grandi mazzi ma sempre irraggiungibili, l’aveva isolato. Manciate di pillole colorate avevano cacciato nel buio le immagini e le voci che lo tormentavano senza tregua. Lo avevano fatto dormire sprofondato nel coma glicemico. Lo avevano scosso contraendogli tutti i muscoli e lasciandolo stremato. Punito. I suoi pensieri peccaminosi repressi, relegati in un angolo oscuro. Quelle chiavi avevano fatto il vuoto nella sua mente. Un vuoto opaco, dai toni grigi e senza sfumature. Una piccola nube come le volute di fumo di una sigaretta.
Quel cancello lo aveva isolato dal mondo reale e fatto precipitare in una dimensione parallela dove il vero e il falso non hanno confini. Dove sigarette e caffè scandiscono ore o soltanto minuti e hanno la stessa lunghezza della noia. Nei viali, sui prati aveva preso attimi d’amore senza volto, donne sfatte, senza vezzi femminili, con scarpe dissimili tra loro, donne senza tacchi.
Era diventato l’abitante scontroso di un castello costruito sulle nuvole, un castello al quale era stato tolto per sempre il ponte levatoio.

Le cinque. Sta facendo la doccia, la troia. Tutta la notte in tv a spogliarsi e alle cinque la doccia, per massimo scherno. Io sveglio e distrutto sono stato tutta la notte davanti alla tv e l’ho vista. L’ho rivista; sempre lei con le sue carni cadenti, consunte. Non riesco a vedere altro. Mi ossessiona con quel suo corpo che esibisce spudoratamente. Solo con me fa la difficile, si ritrae, si nasconde, mi scaccia quando mi avvicino. La puttana, lo sa bene che io l’amo da sempre. Da sempre, da quando eravamo piccoli. Il suo corpo mi fa impazzire. Nostra madre non aveva certo idea di quel che aveva fatto. È piccola, ha bisogno di te ripeteva e io l’ho protetta sempre. L’ho amata come diceva mia madre. Poi la amavo tanto da volerla mangiare, toccarla, spogliarla e l’ho fatto per Dio l’ho fatto e poi non ho più visto altro. Sugli alberi, nei prati, nel televisore ovunque il suo corpo oscenamente esibito, violato. E quelle voci incessanti che ripetono porco sei un porco.

Ho preso la carriola perché ho paura di perdere il sentiero. Davanti a me c’è solo il buio, ma conosco bene la strada che attraversa il bosco e poi l’alto piano quindi a scendere, giù sino a quel cancello. Conosco la strada ma è notte fonda. Lo so, avrò nuovamente paura.

 

Il bassotuba di mio fratello
di Venanzio Tuveri

Mio nonno faceva l’agricoltore, aveva due buoi per tirare il carro e l’aratro nei campi e un cavallo per tirare l’aratro nella vigna e la carretta. Faceva anche il pastore, poche decine di pecore per riempire i tempi morti, per avere l’agnello a pasqua e per raccattare qualche lira con la vendita degli agnelli, del latte e del formaggio in eccedenza.
E la passione della musica. Musica per modo di dire, perchè suonava lo zufolo che lui stesso costruiva. Nel tardo autunno, o in inverno, quando il loro legno era maturo, raccoglieva le canne, che servivano da pali per la vigna e per gli alberelli che si piegavano al vento, e tra queste sceglieva la migliore, la faceva stagionare al secco e all’ombra e poi, con il suo coltello a serramanico, lo stesso che usava per sgozzare gli agnelli, innestare gli alberi e tagliare il pane, si preparava lo zufolo. Un’ora di lavoro, non di più.
Si sposò a trent’anni e, come era d’uso allora, fece un primo figlio, poi un secondo e un terzo. La quarta e la quinta furono femmine. Non riuscì a farne altri perchè in un brutto giorno di primavera un bue lo incornò proprio lì e nessun medico riuscì a rimettergli a posto quei due affari che abitualmente amputavano anche ai buoi per renderli più mansueti. Non per questo mio nonno divenne più mansueto, anzi! Continuò, a tempo perso, a costruire zufoli, tant’è che arrivò ad averne una decina. Ma li suonava in campagna, quando era appresso alle pecore, perchè la moglie non era mai riuscita a sopportare quell’armonia melodiosa che lui produceva.
I tre figli impararono anche loro e zufolarono con entusiasmo. Alle volte, sull’aia nelle sere d’estate, suonavano in coro lo stesso motivo e mentre i buoi si allontanavano in silenzio il cavallo si accasciava per terra.
I figli crebbero e, dal parrucchiere, mio padre fece il suo primo incontro con una chitarra. Nei tempi morti, in attesa dei clienti, i parrucchieri passavano così il tempo. Mio padre si innamorò subito di quel nuovo strano strumento, ne parlò addirittura con mio nonno.
- Quando sei grande ti compri la fisarmonica - gli rispose lui.
Ma a mio padre piaceva la chitarra e cominciò a tagliarsi i capelli più spesso, almeno una volta ogni tre mesi. E stava lì dal parrucchiere a osservare e a imparare anche per l’intera mattinata, sempre di domenica, mentre le donne andavano a messa e il nonno sostava in piazza a chiacchierare con gli altri agricoltori. Si informò sui prezzi e capì che, per avere una chitarra, per quanto di media qualità, avrebbe dovuto vendere almeno una decina di agnelli. Ma gli agnelli erano di suo nonno, mica suoi. Così, per guadagnare qualche lira, quando il padre non aveva bisogno di aiuto andò a giornata presso altri agricoltori, pastori e falegnami. Comprò la chitarra, tentò di strimpellarla e mio nonno subito scosse la testa.
- Avresti dovuto comprarti la fisarmonica - gli disse - e entrare nella banda.
In effetti, da quanto raccontava mio nonno, mio padre era affascinato dalla banda e le andava appresso quando c’era la processione del patrono o quando suonava in piazza per la festa nazionale. Sì, comprò la chitarra, ma non riuscì mai a suonarla in modo decente ed emigrò in Germania con l’arrivo della primavera. Là frequentò un circolo di corregionali e imparò a suonare la fisarmonica. Poi, dopo una decina d’anni, tornò, si fece la casa, aprì un’officina e prese moglie.
Ebbe pure tre figli, tutti maschi, e, quando mio nonno morì, ereditò due ettari di terra, il quinto della casa paterna e tre zufoli di canna abbelliti con incisioni a fuoco e in ottimo stato. Ne distribuì uno a ogni figlio.
- Teneteli cari - ci disse - è un ricordo del vostro nonno.
Li tenemmo cari, in casa tutti avevamo la passione per la musica. Li pulimmo dalla polvere ma, usando uno straccio umido, la canna di uno zufolo si aprì. E uno dei miei fratelli, che aiutava mio padre in officina, decise di comprarsi la tromba perché era rimasto affascinato da Nini Rosso che suonava Il silenzio. L’altro mio fratello, che aveva iniziato a fare l’idraulico, conobbe una ragazza che suonava il piano e se ne innamorò. Il componente della banda comunale che suonava la tuba morì d’incidente stradale e quest’altro fratello, affascinato da quello strumento, la comprò di seconda mano. Era uno strano oggetto tutto curve, anse e zirofeni con il quale riuscì ad accompagnare la moglie al piano emettendo spaventosi guaiti.
Ma c’era amore tra i due e i guaiti sembrarono melodie profonde.
Per migliorarsi, o almeno per apprendere i primi rudimenti musicali, andò a lezione dal capobanda comunale. Si metteva a tracolla la tuba o qualche volta la legava dietro, sul portapacchi della bici, e pedalava.
Quel giorno c’era un ventaccio infame ma pedalò come sempre coraggiosamente verso la casa del suo maestro. Stavano asfaltando la strada, c’erano operai, camion, spargiasfalto e rullo compressore. Smontò procedendo a piedi mentre il vento lo costringeva a camminare piegato in avanti e si apprestò a superare quel cantiere in movimento. La corda cedette proprio mentre superava il rullo compressore e la cassetta su cui era adagiata la tuba rotolò per terra finendo sotto il pesante cilindro. Mio fratello non ebbe neppure il tempo di gettare l’urlo. Qualche secondo dopo sul piano d’asfalto apparve l’ombra dorata e appiattita del suo strumento ormai diventato tutt’uno con il manto stradale.
Fu un dolore cocente e, per alleviarlo, acquistò il suo primo mangianastri e le prime cassette di Celentano. E mentre il giranastri girava, lui accompagnò Il ragazzo della via Gluck con lo zufolo di canna ereditato dal nonno.

 

La porta antica
di Laura Macchia

Ogni segno lasciato sulle cose dall’usura racchiude storie di uomini che non ci sono più.
Così la porta antica, il bordo della toppa ridipinto di rosso, come traccia voluta diversa, quasi a sottolineare l’ansia di riconoscere in fretta il punto in cui agire affinché la porta magica si apra o si chiuda senza far perdere tempo.
Mi ha colpito, appunto, il contrasto. Sono tornati i ricordi e con essi la voglia di capire il mio tempo di bambina con gli occhi di oggi.
La porta principale della casa della mia nonna paterna era proprio così, con tratti di memorie di azzurri ormai sbiaditi che si intrecciavano tra rughe nel legno e bellissimi chiodi fatti a mano. Durante la giornata restava quasi sempre aperta, con la grossa chiave nella toppa.
La chiave aveva proprio la sua classica forma da disegno delle elementari e la toppa imprecisa, di ferro scuro, grande e applicata al legno spesso con il buco dalla antica sagoma che misurava almeno quattro centimetri. Appoggiando l’occhio si poteva scorgere la scalinata interna e il passamano. Già questo mi affascinava.
A volte mi sedevo sulla soglia di marmo, da sola, più a sognare che a giocare. Alle mie spalle c’erano le vecchie solide mura di pietra della casa che ho sempre amato e di fronte uno snodarsi di facciate lacerate dai bombardamenti che conservavano il loro morbido andamento lungo la strada medievale e la fisionomia essenziale delle finestre e degli ingressi ormai irrimediabilmente compromessi.
Di fronte, a sinistra, si apriva un arco, lungo tratto elegante dalla volta di pietre che dalla nostra casa conduceva al Comune, dove mio nonno aveva lavorato sino al giorno della sua morte, improvvisa e prematura.
Quell’arco mi attirava come una calamita perché all’interno conservava frammenti di scale che conducevano a piccole stanze diroccate, aperte a tutti…ma a me proibite con insolita fermezza.
Così, per evitare discussioni, restavo sulla soglia, le spalle a volte appoggiate alla porta antica, utilizzando e trasformando nelle mie fantasie il magico mondo che mi circondava.
La nonna Laura mi dava spesso cose bellissime che trovava per me negli armadi, nei cassetti e per le antiche stanze della casa.
Per anni, ricordando un paio di scarpette bicolori, un ventaglio d’avorio e piume di struzzo, una sciarpa lunghissima, di seta, con piccoli disegni di fiori sul fondo carnicino, la sua borsetta di maglia d’argento e la collana di coralli sfaccettati, mi sono chiesta perché cose tanto belle e preziose mi fossero così generosamente offerte per giocare.
Ogni oggetto era per me stupore e la nonna coglieva l’occasione per raccontarmi con il suo fare conciso ed efficace un tratto brevissimo della sua vita di sposa, il piacere del nonno a farle regali che nel piccolo paese medievale, lontano da Roma, potevano essere usati solo raramente.
Parlare con me di queste cose che teneva sepolte nel suo cuore era per lei un modo insolito per comunicare e le piaceva perché sentiva la mia profonda partecipazione a tutto ciò che la riguardava.
Adesso credo di comprendere il suo distacco perché lo provo anch’io, anche se proprio attraverso alcuni oggetti si rilegge l’essenza di sentimenti che sembrano appartenuti a un’altra persona, ormai conclusa, così come si è costretti a ritenere concluse alcune vicende dai vuoti irrimediabili.
Quella porta io l’ho vissuta, è stato il primo spazio libero che mi sia stato concesso di occupare da sola, senza essere sorvegliata. Così almeno mi pareva.
Mi sentivo affascinata dai mille segni misteriosi che la percorrevano, dal battente più piccolo, mobile, ritagliato nel portale sontuoso, dalle grandi pietre di marmo bianco che contornavano ad arco la sua elegante struttura.
Oltre la soglia, nell’atrio di mattoni rossi, sulla parete destra, c’era una nicchia, anch’essa fonte inesauribile per me di curiose aspettative.
L’immagine, pur risvegliando cari ricordi mi ha costretto a pensare e forse, oggi, mi ritrovo più nel tratto rosso e vitale della fotografia, in quel contrasto che meglio rappresenta il tempo che mi è dato di vivere, questo, il mio tendere al nuovo e al futuro, mentre il fascino di ciò che è stato, di chi mi ha preceduto, resta nelle mie fibre come indimenticabile piacevole bagaglio.


 

Ladri di motorini
di Angelica Lubrano

Non un centro assoluto dell’universo, ma ogni punto è centro in un universo infinito.


Con Rossotti studiare filosofia mi piaceva.
Aveva una bella faccia , Rossotti, pulita , semplice. Di famiglia benestante, abitava a Oneglia, vicino alla stazione, in una bella casa solida, al primo piano di un palazzo signorile con i balconi dalle balaustre con colonnine panciute.
Il suo invito a studiare insieme suscitava in me sentimenti contrastanti di riconoscenza e di diffidenza.
Ciò che avrebbe dovuto essere un fatto normale fra compagne di scuola, assumeva carattere di eccezionalità per me. Era la prima volta che ricevevo un invito da una compagna di scuola. Ero emigrata dalla Puglia 4 anni prima con la mia famiglia. Mia madre aveva voluto iscrivermi alla scuola media quando il percorso obbligato per i figli di operai era la scuola di avviamento.
Avevo scontato questa velleità con difficili esperienze di isolamento.
Nelle classi da me frequentate venne introdotto, a mio esclusivo appannaggio, il banco singolo in un angolo, sotto la finestra. Gli altri compagni sedevano su banchi doppi….
L’iscrizione alla scuola superiore non aveva modificato molto la situazione, anzi, l’aveva complicata. Scuola d’”èlite”; ma anche quando il vento delle riforme l’aveva aperta alla “massa”, l’accesso non si era mai trasformato in vero successo.
Avevo potuto accettare l’invito di Rossotti, che naturalmente non ero in grado di ricambiare, non avendo una casa “altrettanto ospitale”, perché mia madre, convinta delle mie capacità intellettuali ( a pensarci bene, non le ho poi deluse se infine mi sono laureata con 110 e lode!) mi aveva regalato un motorino di terza mano, un Garelli 40, con cui, infagottata in un eskimo, caracollavo per via Cascione fra lo stupore dei passanti, davanti all’insolita visione di una ragazza in moto.
La moto rappresentò per me un esaltante fattore di indipendenza, di libertà. Quasi uno strumento di compensazione delle soverchierie subite.
- Non vedo più il motorino!
- Ma dai, guarda bene.
- L’avevo messo proprio nel marciapiede di fronte….
Allungando di tanto in tanto il collo dal balcone a colonnine panciute riuscivo così a controllare che fosse al suo posto.
- L’avrai messo da un’altra parte.
- No, ti dico, non c’è più.
Corsi giù dalle scale con il panico che mi stringeva lo stomaco. Ma il motorino era sparito.
Mi venne in mente lo sconforto del protagonista di “Ladri di biciclette” che vedeva sfumare con il furto della sua bicicletta il sogno del suo riscatto sociale.
Anche il mio sogno di libertà sembrava svanire.
Lo ritrovai poi in un vicolo il mio motorino. Giaceva spaccato in due, irrecuperabile e inutile…. come mi sentivo io.

QUADERNO N. 8