Che facevo nel 1968? Devo dire la verità che non me lo ricordo. Terminai
il Liceo Scientifico nel 1966, poi ho un black out di memoria fino al ‘70-71.
Se rimescolo nel calderone della memoria, mi torna alla mente solo un indistinto
senso scomposto di malessere. Nel ’68 avevo 21 anni, ma di me ho solo
il ricordo di una bambina troppo grande, che annaspava in un marasma di litigi,
sentimenti disattesi, abitudini che ora chiameremmo tradizioni, il cui scopo
unico era di fare di me sposa e sopratutto madre, cosa per la quale io sono
e sono stata sempre poco portata. All’Università non ero riuscita
a stabilire nuovi rapporti e m’ero bruciata i vecchi. I pochi amici
che m’ero fatta al liceo erano scappati terrorizzati da mio padre, dalle
sue ingerenze e dalle mie consequenziali stranezze. E’ proprio vero
che quello che non t’ammazza ti fortifica!
In effetti, questa non è tutta la verità. Dei miei 21 anni ho
un ricordo ben preciso: un’inutile e malinconica festa di compleanno.
Mia madre s’era impegnata a farmi confezionare su misura un abito lungo
di seta verde acqua con una larga passamaneria dorata. Lo avevo disegnato
io e secondo gli intenti famigliari avrebbe dovuto servire a farmi rimediare
un marito. Non ci fu alcun seguito, non quello che si aspettavano loro per
lo meno, che andò disatteso come tutte le altre volte. Della festa
non ricordo granché tranne il fatto che la persona che piaceva me se
ne andò con un’altra. Come sempre del resto. Io mi ubriacai di
Carpenè e l’amico che mi accompagnò a casa si ritrovò
costretto a dare la scalata a un lampione per cogliermi una rosa da mettere
fra i capelli (allora erano ancora lunghi). Rosa assolutamente inutile visto
ch’erano le 3 di notte e la festa ormai finita da un pezzo. Rividi il
mio amico solo dopo 20 anni in preda a una pericolosissima malattia autoimmune.
Di lui non so più niente. Dopo quella festa, però, cambiai decisamente
vita. Tagliai i capelli cortissimi, così come li porto ora e non ci
furono più feste, per lo meno di quelle tradizionali con tanto di giradischi,
sigarette, malinconia e solitudine.
Di tutto quello che andava succedendo in Francia e in America m’era
arrivato solo l’eco nel film Fragole e sangue e qualche immagine hippy
mediata per lo più dai Beatles. Il resto era solitudine e dolore. Di
studiare non se ne parlava proprio, io ero tutta impegnata ad uscire dalla
mia mota psicologica e familiare. Appena provavo a uscirne per respirare,
c’era qualcuno che provvedeva a mettermi una mano sulla testa e a risprofondarmi
due palmi sotto il livello di guardia. Mia madre piangeva, mio padre gridava. Lui gridava sempre per abitudine,
perché pensava che a essere maleducato e prepotente si potevano ottenere
cose che la gentilezza (roba da donne, esseri sottosviluppati) non sarebbe
stato in grado di ottenere. Lei piangeva sempre, perché era l’unico
modo di farlo smettere di gridare. Poi si vendicava tacendo per intere settimane,
qualche volta mesi. Devo dire che quella del tacere è un’ottima
tattica. Ogni tanto la uso anch’io!
Fu in quel periodo che smisi di avere paura di lui. Non c’era tutto
sommato nessuna ragione per smettere di avere paura dell’orco, ma io
smisi. Penso che si trattò fondamentalmente di una reazione ormonale.
Smisi di avere paura di lui e di tutti gli altri prepotenti che mi circondavano.
Avevo già cominciato a mettere tutto in discussione nel vero senso
della parola, ovvero discutevo tutto quello che mi veniva detto da maestri,
professori, genitori, adulti in genere, ma anche amici, parenti, compagni
di scuola della mia età, riuscendo solo a diventare più antipatica
di quello che già ero di mio per via della mia circonferenza massima
e dei miei atteggiamenti che la psicologia ora descriverebbe come caratteriali.
Così decisi di dare una bella scrollata ai parassiti, cominciando a
dire a tutti quello che pensavo di loro. Non ho smesso ancora adesso, continuando
per altro a crearmi una serie d’inutili nemici…
I miei fecero di tutto per fare di me un’handicappata mentale. In effetti
gli handicappati si amano di più, perché dipendono da noi e
gli si può far fare e pensare tutto quello che si vuole. In questo
senso sono molto meglio i morti, che solitamente finiscono santificati, ma
non si può avere tutto dalla vita! Purtroppo per loro, proprio in quel
periodo, io smisi di volerli compiacere a tutti i costi e cominciai a pensare
con la mia testa. Pianti e grida non servirono più a niente. L’unico
risultato fu una bella valigia con la quale mi trasferii da un’amica
(si fa per dire) con il risultato di cadere dalla padella nella brace. E siccome
tutto quello che non t’ammazza ti fortifica, eccomi qua a raccontarvi
di quando alla fine bruciai il reggipetto in piazza del duomo insieme ad altre
sciamannate mie coetanee; mi barricai inutilmente in un’aula dell’università;
riuscii per un pelo a non farmi arrestare dai celerini, ma solo perché
fui particolarmente fortunata, mi associai con persone tutte uguali solo che
i maschi erano un po’ più uguali delle femmine, mandai tutti
a farsi benedire e continuai a vivere una vita sgangherata dove ogni giorno
dovevo mandare in quel certo posto qualcuno che si sentiva in dovere di dire
alle donne che sono esseri inferiori e creati per servire i maschi. D’altra
parte 7000 anni di angherie socialmente codificate non si possono dimenticare
in un giorno nemmeno con la buona volontà. Sarà per questo che,
quando mi parlano di tradizioni, ringhio?
Mabi Col