- Esco a prendere le sigarette!
Ho sempre detestato quel vizio. Sì certo quella sigaretta all’angolo
della bocca gli dava quell’aria spavalda da seduttore impenitente…
Alto, magro, lo sguardo obliquo e strafottente, con lampi di durezza e di
dolcezza disarmante, l’andatura dinoccolata.
L’avevo conosciuto il giorno del suo sedicesimo compleanno. Io avevo
14 anni. Poi i suoi genitori si erano trasferiti. Non avevano mai visto con
piacere la nostra storia d’amore e “lontano dagli occhi, lontano
dal cuore” era diventata la loro speranza. Ma noi caparbiamente avevamo
continuato a frequentarci.
- È passata mezz’ora, non è ancora tornato, avrà
incontrato qualche amico – pensai – Quel pazzo di Armando gli
avrà proposto un giro in moto.
Armando era un suo collega di lavoro un po’scombinato, appena separato,
Anna, la sua ex moglie, incattivita dalle sue esuberanze con donne e motori
gli aveva reso la vita impossibile con sentenze e condanne civili per inchiodarlo
a responsabilità genitoriali che lui si mostrava incapace di assumersi.
- Perché tarda tanto? - Ero furiosa. – Sa che devo andare dal
medico. Gli avevo chiesto di stare con le bambine.
Cominciai a vestirle. Le avrei portate con me. Anche Francesco, mio marito,
ultimamente mi era sembrato strano, anche lui un po’ scombinato, molto
evasivo, spesso polemico. Ritardi. Prolungate assenze.
- Non capisco perché tu abbia bisogno di rimetterti a studiare! –
mi aveva urlato spazientito quando gli annunciai che avevo intenzione di riprendere
gli studi e mi ero iscritta all’Università .
- Sembra che non ti basti quello che hai.
Aveva ragione. Una bella casa, due splendide bambine. Anche una macchinetta
di seconda mano per rendermi indipendente, visto che abitavamo lontani dal
centro.
Caricai le piccole in macchina, agganciai le cinture di sicurezza. Non era
stato ancora emanato l’obbligo, ma tenere a bada due piccole belve scatenate
di cinque e sei anni in pochi metri quadri per più di dieci minuti
senza assicurarle ai rispettivi seggiolini rappresentava un rischio per loro
e per la strada.
- Già, cosa mi manca?
Non facevo che combattere con camicie da stirare, panni da lavare, pavimenti
da lucidare: nove mesi di gravidanza, sette di allattamento, nove mesi di
gravidanza, altri sette di allattamento. Mi sembrava di essermi trasformata
in un elettrodomestico programmato: dalla mattina alla sera (con frequenti
straordinari notturni) ripetevo meccanicamente gesti e parole. Il cervello
mi sembrava un inutile orpello che avrei tranquillamente potuto conservare
in naftalina insieme al cambio di stagione degli armadi.
Vivevo di riflesso.
- Dovresti ringraziare il Signore per la fortuna che ti è toccata!
– sua madre e suo padre mi guardavano con disapprovazione.
La mia casa non era mai a puntino con quelle due piccole tiranne. Poi puntualmente
mi chiedevano, guardando compassionevoli il loro figliolo:
- Ha mangiato? Sta bene?
Per me nessuna attenzione. Io avevo perso dieci chili: l’ultima gravidanza
aveva provocato danni a un rene. Ma nessuno si preoccupava di me.
- Mamma, mi ha preso il vestito di Barbie!
- Non è vero, era il mio. Lei me l’ha portato via dalla mia borsina!
- Cerca bene e troverai il tuo- tentai di fare da paciere.
Crescevano praticamente come due gemelline. Solo 16 mesi di differenza. Stessi
vestiti, stesse scarpette, stessi giocattoli per evitare pianti e scene di
gelosia.
Uscii fuori dal parcheggio e cercai di concentrarmi sulla guida. Per andare
dal medico dovevo fare un bel pezzo di strada.
- Ma quella è la macchina di Francesco – riconobbi la sua Volkswagen
metallizzata. – Meno male, ora mi fermo e gli lascio le bambine, non
mi va di portarle nella sala d’attesa del medico a scorrazzare fra starnuti
e colpi di tosse .
Rallentai, anche lui mi riconobbe. I nostri sguardi si incrociarono. Poi vidi
accanto a lui un’ombra, una figura. Accelerai. In una piazzola feci
retromarcia, tornai a casa. Sistemai le bambine. Afferrai una grossa valigia
che riempii con tutti gli effetti personali di Francesco. La piazzai fuori
dalla porta d’ingresso e lasciai le chiavi nella toppa dall’interno.
Per fortuna abitavo in una villetta della periferia, non in un condominio,
evitandomi così gli sguardi curiosi di eventuali vicini. Mi sentivo
stranamente calma, più leggera. Aprii la finestra. Lunghe ombre serene
erano punteggiate da piccole spie luminose: le lucciole! Pasolini ne aveva
paventato la scomparsa. La loro vista mi sembrò di buon auspicio per
la nuova vita che mi attendeva.
Francesco tornò dopo qualche anno. Ma ora non fuma più.
Angelica Lubrano