Stava per tramontare il sole quel pomeriggio di marzo, quando l’anziano
professore di filosofia, andò fuori a fumare. A quell’ora lui
aveva un appuntamento fisso: il tramonto del sole sul mare. Era un momento
magico. Il suo momento magico. Lo compensava della fatica che doveva fare
su quelle interminabili scale della vecchia casa che era riuscito a comperarsi
con la liquidazione. Lo compensava della sua solitudine. Un momento appagante
di bellezza e di malinconia. Aveva come l’impressione che la natura
regalasse a lui, e solo a lui, quello spettacolo grandioso e magnifico.
Il Professore si sedette su una comoda poltrona di vimini e si accese l’amata
sigaretta. Il suo sguardo si posò sulla rigogliosa pianta del grande
vaso che limitava il lato nord del terrazzo. Rigogliosa, sempre verde, quasi
una siepe. Era come avere un giardino. Aveva persino scritto ad un amico “la
casa è piccola, ma mi basta, e poi… c’è un grande
terrazzo con “vista mozzafiato sul mare” (così l’aveva
definita l’agente immobiliare) ed un piccolo giardino pensile”.
Forse aveva esagerato, non era un giardino pensile…ma, per lui, quasi
lo era.
Si era appena seduto, quando notò uno strano movimento alla base della
siepe. “Sarà Diogene” pensò il Professore. Diogene
era un gatto grigio tigrato che, ogni tanto, veniva a trovarlo. Arrivava attraverso
i tetti, non si sa da dove. Non chiedeva da mangiare. Voleva solo condividere
i suoi momenti perfetti. Come, ad esempio, godere del tepore del sole in una
giornata di primavera. Quel gatto avrebbe potuto coricarsi a prendere il sole
da qualsiasi altra parte, ma gli piaceva farlo in compagnia. La compagnia
discreta di chi sa apprezzare i momenti perfetti. In silenzio. Perciò
il Professore lo aveva chiamato, Diogene. Perché sentiva che era un
filosofo come lui.
Ma, no, non poteva essere Diogene; era qualcosa di più piccolo….
Guardò meglio: intravide qualcosa di colorato muoversi. Ma cos’era?
Il professore rimase immobile; un po’ per lo stupore, un po’ perché
temeva di spaventare quella sconosciuta creatura. Sembrava una tortora. Ma
no… il corpo era marrone-arancio e poi le ali e la coda avevano come
delle strisce bianche e nere e il becco era molto più lungo e ricurvo.
Ma la cosa più strana era una specie di sperone di penne che aveva
sul capo e che, ad un certo punto, si aprì, come un ventaglio, divenendo
un’alta cresta arancione bordata di bianco e nero.
Allora il professore la riconobbe; certo, era un’upupa! Ne aveva vista
una da bambino. Provò un’emozione forte, identica a quella di
tanti anni prima. Ed ora l’upupa era lì, davanti a lui! Lo fissava
impaurita, come rassegnata a subire una inevitabile violenza. Era stremata;
magrissima, con le piume arruffate, forse prossima alla fine. Il viaggio dall’Africa
doveva essere stato drammatico. Si avvicinò con l’intento di
soccorrerla, allora lei si accucciò, allargò le ali a terra
e abbassò il capo, atteggiamento che al Professore parve una resa definitiva.
Impressionato da questa reazione, si ritirò all’interno, dietro
alla porta-finestra, per osservare l’ospite senza essere visto. L’upupa
allora ricompose le ali, si rialzò a fatica e si nascose di nuovo dietro
alle foglie.
Poi, più niente, per un lunghissimo tempo.
Il Professore già temeva che fosse morta, quando sentì un sordo
e sommesso: -Up-up-up…Up-up-up... Up-up-up - Allora era viva! Fu preso
da una specie di euforia e di frenesia di fare. Ma cosa fare? Decise di attendere
il buio e di portare, nella maniera più silenziosa possibile, una ciotola
d’acqua sotto alla siepe. L’operazione riuscì, senza incidenti.
Quella notte il Professore dormì poco; il suo pensiero andava sempre
all’upupa: “avrà bevuto?” si chiedeva ”Arriverà
fino a domani? E se Diogene la scopre, che fine farà?” Poi, un’dea
cominciò a prevalere sulle altre: doveva assolutamente trovare il suo
collega di Scienze, il prof. Buzzone. Lui senz’altro sapeva cosa fare,
cosa darle da mangiare, come rimetterla in sesto. Con questo pensiero positivo
finalmente si addormentò. Si svegliò all’improvviso quando
era già chiaro.
-Up-up-up…Up-up-up... Up-up-up -
“Bene” pensò il Professore “ha passato la notte,
adesso bisogna darle da mangiare” Si vestì in fretta ed uscì
alla ricerca di Bruzzone. Alla solita panchina non c’era. Al bar dove
faceva colazione, nemmeno. Gli indicarono la via dove abitava. Si precipitò.
Al citofono nessuno rispose. In quell’affannosa ricerca si fece strada
nella sua mente una bizzarra consapevolezza: quel suo collega che tante volte
lui aveva sottovalutato, in realtà, aveva le conoscenze vere, quelle
che contano, mentre lui…mentre lui, il grande filosofo, non sapeva nemmeno
cosa dare da mangiare ad un upupa!
Sconsolato stava per tornare a casa, quando gli venne in mente la soluzione:
la Biblioteca! Come aveva fatto a non pensarci? Trovò tutto quello
che gli serviva in un libro di ornitologia. Scoprì che quel lungo becco
ricurvo era fatto per scovare e mangiare insetti. Insetti…insetti, ma
dove trovarli? Tornò al bar:
-Scusate, dove posso trovare degli insetti?- Lo guardarono con quella falsa
benevolenza che si riserva ai vecchi un po’ suonati. Allora lui raccontò
la sua avventura con l’upupa. Il barista allora lo indirizzò
ad un negozio di caccia e pesca; le esche di larve di Tenebrio, sarebbero
andate senz’altro bene.
Tornò a casa con una scatola di farina e crusca brulicante di larve.
Con circospezione la posò sotto la siepe. Dopo poco, notò un
tramestio di foglie e l’upupa ricomparve, Si guardò intorno,
vigile, poi, decisa, infilò il lungo becco ricurvo nella crusca. Afferrò
una larva, la lanciò in alto e poi la riprese a becco aperto. Il Professore
non aveva mai visto mangiare in quella maniera.
“Evviva! Ha mangiato, ha mangiato!!” pensò. “Forse
riuscirò a salvarla!” .
Sbalordito, si sorprese a pensare, facendo una specie di bilancio della sua
vita, che quella era stata la cosa più utile che aveva fatto negli
ultimi anni… Scacciò subito quell’idea, tanto gli sembrò
assurda. Quindi, confortato dall’atteggiamento più confidente
che l’upupa aveva mostrato, decise di andarsi a sedere sulla poltroncina
di vimini sul terrazzo per fumare la consueta sigaretta. Nel pomeriggio l’upupa
si presentò e mangiò ancora.
Il giorno seguente tutto filò liscio. Il professore poteva ormai restare
sul terrazzo senza che l’upupa si sentisse disturbata dalla sua presenza.
Anzi, sembrava guardarlo in un modo tutto particolare che il professore volle
interpretare come riconoscente.
Alla sera, però, quando si sedette fuori per il suo consueto appuntamento
con il tramonto, ebbe l’impressione di essere osservato. Alzò
lo sguardo e vide Diogene sdraiato, immobile, sul colmo del tetto della casa
vicina. Le orecchie e i baffi protesi in avanti lo sguardo fisso verso la
siepe.
- Diogene, no!! No! – gridò il professore, temendo il peggio.
Diogene allora lo guardò intensamente, come a perforare il suo pensiero.
Poi socchiuse gli occhi lentamente e dolcemente. Voleva dire: “D’accordo,
ho capito”. Quindi, si alzò e sparì dall’altra parte
del tetto. Il professore tirò un respiro di sollievo. Proprio in quell’istante,
l’upupa uscì allo scoperto, lo guardò ancora una volta
con i suoi occhietti tondi e scuri, poi distese le sue ali bianche e nere
e iniziò a batterle, prima lentamente, poi sempre più velocemente
e con forza. Volò via come se fosse una grande farfalla.
Il professore attonito, la seguì con lo sguardo mentre prendeva la
direzione delle montagne fino a che si confuse con gli alberi lontani e sparì
dalla sua vista. Allora lui sentì un vuoto opprimente che lo risucchiò
verso l’essenza del suo essere. Capì che quella era stata l’ultima
visita di un Sogno. Non seppe identificare quale sogno. Ma ebbe la certezza
che fosse l’ultimo e che quel volo si fosse portato via per sempre la
sua giovinezza.
Appoggiò il capo alla poltrona di vimini e lasciò che la brezza
della sera gli accarezzasse il volto.
Intanto, stanca, l’ala dorata del tramonto scivolava, lenta, sui prati,
scorreva sui colori morenti, lasciando estesi tappeti di grigi. Saliva lungo
le valli, fra meandri di ombre, fino agli sfumi violetti delle lontane montagne
dove aveva visto sparire l’Upupa.
S’acquietò il vento, s’ingrigì il mondo.
Ivana Trevisani Bach